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Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tost, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura de' due monti, e il lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che invan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia. Dall'una all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell'acqua; di qua lago, chiuso all'estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l'acqua riflette capovolti, co' paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra' monti che l'accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute.Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all'anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi.
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Questo mese compirai 7 anni. Mi piace la tua foto, i tuoi occhi e la fronte sono come tuo Padre, la mandibola, la bocca e i capelli come me. L'espressione dei tuoi occhi azzurri con le lunghe ciglia nere è proprio quella di tuo Padre. E' bello che tu non debba andare a una scuola pubblica. Sei fortunata ad avere un uomo come il Capitano O'Neil che ti dà tanto di ogni cosa. Io non ho avuto niente, Janey, e quando penso a te che sei su una nave con Papà Jim con un insegnante tutto per te e bei vestiti e mi dice che stai prendendo lezioni di pianoforte sii buona con lui cara, e amalo sempre per tutto quello che ha fatto per te. Quando ti ha fatto scrivere il tuo nome nella lettera che mi ha mandato, è stato tanto gentile. Hai una scrittura così bella, mi ha fatto vergognare della mia.La tua foto mi ha riportato indietro tutti gli anni che ho vissuto con tuo Padre e mi ha ricordato com'ero gelosa di lui. Mi va di scrivere di lui stanotte quindi ti racconterò alcune cose che dovresti sapere. Incontrai James ButlerHickok, "Wild Bill", nel 1870 vicino a Abeline, Kansas. Sentii una banda di fuorilegge progettare di ucciderlo. Non potevo arrivare al mio cavallo e così strisciai sulle mani e sulle ginocchia attraverso la boscaglia oltre i fuorilegge per più di un miglio e raggiunsi la vecchia capanna dove lui stava quella notte. Gli raccontai tutto e lui mi fece nascondere dietro la porta mentre usciva a battersi con loro.Lo colpirono spaccandogli la fronte in alto e poi lo sentirono cadere e accesero dei fiammiferi per vedere se era morto. Bill li uccise tutti. Non dimenticherò mai il suo aspetto con il sangue che gli colava giù per la faccia mentre sparava con 2 pistole. Non prendeva mai la mira e penso che nessuno poté mai dire di lui che mancò un bersaglio a cui avesse puntato se voleva uccidere, e sparava solo per autodifesa. Allora era infallibile. Lo curai per qualche giorno e poi nel viaggio di ritorno a Abeline incontrammo il Reverendo Sipes e il Reverendo Warren e ci sposammo. Sono in molti a non crederci, ma tilascerò molte prove che eravamo sposati. Non sei stata una bastarda, Janey. Non lasciare che uno solo di quegli sporchi avvoltoi (cancellato) se la passi liscia con questa bugia.Mi vergogno del mio modo di scrivere ma non posso fare di meglio Devo parlarti del nostro certificato di matrimonio. Tuo Padre pensava di farlo trasferire su uno vero stampato. Io avevo intenzione di sistemarlo un giorno come lui avrebbe voluto. Se anche lo ottengo, tu conserva sempre questo, Janey, comunque.Forse non sarà ugualmente bello ma era il solo che il Reverendo Sipes e il Reverendo Warren potessero mettere insieme così lontano dalla civiltà. Troverai una foto dei genitori di tuo Padre nell'album, anche una spilla d'oro a forma di ferro di cavallo che apparteneva alla madre di tuo Padre. Me l'ha data lui. Abbi cura di queste cose, tesoro. Sono anche loro così vecchie e quando sarai vecchia ti saranno care come ricordi.La pistola che conservo per te è una di quelle che mi ha dato tuo Padre. Mi comprò questo anello come anello i matrimonio Lo metterò insieme ai miei tesori per te. Fu comperato a Abeline, in Kansas, quando ero lì con lui. Ero tanto gelosa di ogni donna laggiù. Una che io chiamo sempre la sua moglie riconosciuta era Mamie Werly, una ballerina. Mi faceva diventare furiosa e la chiamavo così con lui. Si limitava a ridere e diceva "Stupida Jane baciamoci e facciamola finita." Non avrebbe mai litigato per Mamie Werly e non le badava per niente, io ero gelosa lo stesso e immaginavo chissà che. Non lasciarti prendere dalla gelosia, Janey. Uccide l'amore e tutte le cose belle della vita. Ha allontanato tuo Padre da me. E quando lo persi persi ogni cosa che avessi mai amato eccetto te.Gli concessi il divorzio così poté sposare Agnes Lake. Cercavo di farmi perdonare i tempi della gelosia e degli attacchi di meschinità. Se lei l'avesse amato sarebbe venuta qui con lui ma non lo fece, e io fui felice di riaverlo ancora anche se era sposato e lei tanto lontana. Ho sempre scusato il nostro peccato pensando che lui era stato mio tanto tempo prima di essere suo. Un uomo può amare 2 donne a 1 tempo. Lui amava lei e amava ancora me.Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena. Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta un'epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome. Federico secondo, imperatore d'Alemagna e re di Sicilia, chiamato da Dante "cherico grande", cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel novelissimo signore, nella cui corte a Palermo venia "la gente che avea bontade, sonatori, trovatori e belli favellatori". E perciò i rimatori di quel tempo, ancorché parecchi sieno d'altra parte d'Italia, furono detti siciliani.Che cosa è la cantilena di Ciullo? È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutt'i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia.Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze, mescolata di voci siciliane, napolitane provenzali, francesi, latine. La canzone è tirata giù tutta d'un fiato, piena di naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia, ineducata. E perciò il documento è più prezioso, perché se l'ingegno del poeta apparisce ne' concetti e ne' sentimenti e nell'andamento vivo e rapido del dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino di quel tempo. E studiando in quella forma, è facile indurre che c'era allora già la nuova lingua, non ancora formata e fissata, ma tale che non solo si parlava, ma si scriveva; e c'era pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di concetti, e con le sue forme tecniche e metriche già fissate. Chi sa quanto tempo si richiede perché una lingua nuova acquisti una certa forma, che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace che la lingua di Ciullo, ancoraché in uno stato ancora di formazione, dovea già essere usata da parecchi secoli indietro. E ci volle anche almeno un secolo, perché fosse possibile una scuola poetica, giunta allora all'ultimo grado della sua storia, quando i concetti, i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in tutti i medesimi. Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come e quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si può congetturare con più o meno di verisimiglianza, ma non si può affermare per la insufficienza de' documenti. Oltreché, non è questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di così alto interesse, materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni. Si possono affermare alcuni fatti. La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della nazione, parlata e scritta da' chierici, da' dottori, da' professori e da' discepoli. Ricordano Malespini dice che Federico secondo seppe "la lingua nostra latina e il nostro volgare". Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell'uso comune della vita, si vede pure da' contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce latina trovi la voce in uso con un "vulgo dicitur", o "dicto." Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino, come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto il "romano rustico". Nell'812 il concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in "lingua romana rustica". Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, "solo che l'oratore si fosse accostato alla guisa del volgo". Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano, e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare, anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne' diversi dialetti, quanto alle sue parti accidentali, come desinenze, accenti, affissi, ecc. C'era dunque un tipo unico, presente in tutte le lingue neolatine, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun'altra. Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese per le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo. Nell'uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma era dappertutto, come il tipo unico a cui s'informavano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia. Questo tipo o carattere de' nostri dialetti appare e nella somiglianza de' vocaboli e delle forme grammaticali, e ne' mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino, era il "volgare". Così Malespini dicea: "la nostra lingua latina e il nostro volgare", cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne' suoi dialetti.Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari, come le genti che li parlavano, altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei, e prendere un colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno conformi a quello stampo, e che si diceva il "volgare", così prossimo al romano rustico.Quando il sedicenne Carlo Rossmann, mandato in America dai suoipoveri genitori dopo che una domestica lo aveva sedotto e gliaveva messo al mondo un figlio, a bordo della nave che avanzava apiccola forza entrò nel porto di New York, pensò che la statuadella Libertà, già da un pezzo visibile, splendesse sotto una lucepiù intensa. Il braccio che brandisce la spada sembrava essersiappena alzato, intorno alla figura spiravano fresche correnti."Com'è alta!" fece tra sé, mentre la folla dei facchini, chepassavano sempre più numerosi, sebbene lui non volesse muoversi,finiva con lo spingerlo contro il parapetto.Un giovane, che aveva appena conosciuto durante il viaggio, glidisse, dirigendosi verso l'uscita: "E lei non ha voglia discendere?". "Certo, sono pronto!" fece Carlo ridendo, e sia pervantarsi, sia perché era un ragazzo robusto, si caricò la valigiain spalla. Ma nel seguire con lo sguardo il suo conoscente, che siallontanava facendo oscillare il bastone, si accorse, consgomento, che aveva dimenticato l'ombrello in basso. Pregò infretta il conoscente, che non nascose la sua contrarietà, diaspettare un attimo vicino alla sua valigia, si guardò intorno perorientarsi in seguito e corse via. Arrivato in basso, ebbe lasgradita sorpresa di trovare chiuso un corridoio che gli avrebbeabbreviato di parecchio la strada: il provvedimento dipendevasicuramente dallo sbarco generale. Fu allora costretto a cercarsila strada tra un'infinità di camerini e di scalette disposti unodopo l'altro, corridoi a zigzag, una sala ammobiliata da una solascrivania, e alla fine, poco esperto com'era di quel percorsofatto soltanto un paio di volte in mezzo alla gente, si smarrì.Non passava più nessuno; sulla sua testa sentiva lo scalpiccìo dimigliaia di piedi, lontano gli arrivava l'ultimo ansito dellemacchine: perplesso, senza troppo riflettere, cominciò a picchiarecontro una porticina che si trovò vicino."E' aperto!" gridarono dall'interno. Carlo, con un respiro disollievo, spinse la porta. "Ma perché picchia in quel modo?"chiese una specie di gigante, appena lo ebbe visto. Nella strettacabina, dove si stipavano un letto, un armadio, una sedia e ilgigante, arrivava, attraverso un piccolo passaggio, una luceavara, come se fosse l'avanzo di quello che avevano adoperato inalto. "Mi sono smarrito", disse Carlo. "Durante il viaggio non mene ero accorto: ma questa nave non finisce più!". "Eh già, haragione", disse l'uomo con un certo orgoglio, senza smettere diarmeggiare intorno a una valigetta, di cui premeva il coperchioper far scattare la serratura. "Ma entri!" proseguì, "non vorràrestare fuori!". "Non disturbo?" chiese Carlo. "Ma che dice?". "E'tedesco lei?" chiese ancora, diffidente, Carlo, che aveva sentitodei pericoli ai quali è esposto chi arriva in America, soprattuttoda parte degli irlandesi. "Proprio così, proprio così", dissel'uomo. Carlo esitò ancora. Allora l'altro, con gesto improvviso,afferrata la maniglia, tirò dentro Carlo e gli chiuse dietrol'uscio. "Non mi va che mi si guardi dal corridoio", disseriprendendo ad armeggiare intorno alla valigia, "ognuno che passaguarda dentro, si finisce col perdere la pazienza". "Ma se nelcorridoio non c'è nessuno!" disse Carlo, che era finito contro illetto. "Sì, adesso!" disse l'uomo. "E non è di adesso che siparla?" pensò il ragazzo. "E' difficile intendersi con costui"."Si sieda sul letto, starà più comodo", disse l'uomo. Carlostrisciò nella cuccetta come meglio poté, ridendo per il vanotentativo di entrarci con un salto. Ma appena seduto gridò: "Bontàdivina, la mia valigia!". "E dov'è?". "In coperta, un conoscenteme la sta guardando". "Come si chiama?". Da una tasca segreta chela madre, in occasione del viaggio, gli aveva cucito nella giacca,tirò fuori un biglietto da visita. "Butterbaum, FrancescoButterbaum". "Ci tiene molto, alla sua valigia?". "Certo!". "Eallora perché l'ha affidata a un estraneo?". "Avevo dimenticatol'ombrello e sono corso a riprenderlo, non volevo portarmi dietrola valigia. Poi, mi sono perso". "E' solo? Non l'accompagnanessuno?". "Solo". Forse farei bene ad affidarmi a quest'uomo,pensò Carlo a questo punto. Dove trovare, su due piedi, un amicomigliore? "E ora ha perduto anche la valigia. Sull'ombrello,facciamoci una croce". L'uomo sedette sulla sedia, come se lafaccenda di Carlo cominciasse a interessarlo. "Ma io non credo chela valigia sia perduta". "Beato chi ha fede", disse l'uomograttandosi i capelli neri e fitti, tagliati corti. "Ma su unanave ci sono tanti costumi quanti i porti che si toccano. AdAmburgo il suo signor Butterbaum avrebbe, forse, guardato lavaligia, qui, invece, credo che lei non troverà più ombra nédell'uno né dell'altra". "Bisogna pure che vada a dare un'occhiatalassù", disse Carlo guardandosi intorno per cercare l'uscita.


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Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell'evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo.Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l'hanno fatta, così mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest'azione dei tempi sopra la vita d'un uomo potesse recare qualche utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati.Sono vecchio oramai più che ottuagenario nell'anno che corre dell'era cristiana 1858; e pur giovine di cuore forse meglio che nol fossi mai nella combattuta giovinezza, e nella stanchissima virilità. Molto vissi e soffersi; ma non mi vennero meno quei conforti, che, sconosciuti le più volte di mezzo alle tribolazioni che sempre paiono soverchie alla smoderatezza e cascaggine umana, pur sollevano l'anima alla serenità della pace e della speranza quando tornano poi alla memoria quali veramente sono, talismani invincibili contro ogni avversa fortuna. Intendo quegli affetti e quelle opinioni, che anziché prender norma dalle vicende esteriori comandano vittoriosamente ad esse e se ne fanno agone di operose battaglie. La mia indole, l'ingegno, la prima educazione e le operazioni e le sorti progressive furono, come ogni altra cosa umana, miste di bene e di male: e se non fosse sfoggio indiscreto di modestia potrei anco aggiungere che in punto a merito abbondò piuttosto il male che il bene. Ma in tutto ciò nulla sarebbe di strano o degno da essere narrato, se la mia vita non correva a cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana. Infatti fu in questo mezzo che diedero primo frutto di fecondità reale quelle speculazioni politiche che dal milletrecento al millesettecento traspirarono dalle opere di Dante, di Macchiavello, di Filicaia, di Vico e di tanti altri che non soccorrono ora alla mia mediocre coltura e quasi ignoranza letteraria. La circostanza, altri direbbe la sventura, di aver vissuto in questi anni mi ha dunque indotto nel divisamento di scrivere quanto ho veduto sentito fatto e provato dalla prima infanzia al cominciare della vecchiaia, quando gli acciacchi dell'età, la condiscendenza ai più giovani, la temperanza delle opinioni senili e, diciamolo anche, l'esperienza di molte e molte disgrazie in questi ultimi anni mi ridussero a quella dimora campestre dove aveva assistito all'ultimo e ridicolo atto del gran dramma feudale. Né il mio semplice racconto rispetto alla storia ha diversa importanza di quella che avrebbe una nota apposta da ignota mano contemporanea alle rivelazioni d'un antichissimo codice. L'attività privata d'un uomo che non fu né tanto avara da trincerarsi in se stessa contro le miserie comuni, né tanto stoica da opporsi deliberatamente ad esse, né tanto sapiente o superba da trascurarle disprezzandole, mi pare in alcun modo riflettere l'attività comune e nazionale che la assorbe; come il cader d'una goccia rappresenta la direzione della pioggia. Così l'esposizione de' casi miei sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei vecchi ordinamenti politici al raffazzonarsi dei presenti composero la gran sorte nazionale italiana. Mi sbaglierò forse, ma meditando dietro essi potranno alcuni giovani sbaldanzirsi dalle pericolose lusinghe, e taluni anche infervorarsi nell'opera lentamente ma durevolmente avviata, e molti poi fermare in non mutabili credenze quelle vaghe aspirazioni che fanno loro tentar cento vie prima di trovare quell'una che li conduca nella vera pratica del ministero civile. Così almeno parve a me in tutti i nove anni nei quali a sbalzi e come suggerivano l'estro e la memoria venni scrivendo queste note. Le quali incominciate con fede pertinace alla sera d'una grande sconfitta e condotte a termine traverso una lunga espiazione in questi anni di rinata operosità, contribuirono alquanto a persuadermi del maggior nerbo e delle più legittime speranze nei presenti, collo spettacolo delle debolezze e delle malvagità passate.Ed ora, prima di prendere a trascriverle, volli con queste poche righe di proemio definire e sanzionar meglio quel pensiero che a me già vecchio e non letterato cercò forse indarno insegnare la malagevole arte dello scrivere. Ma già la chiarezza delle idee, la semplicità dei sentimenti, e la verità della storia mi saranno scusa e più ancora supplemento alla mancanza di retorica: la simpatia de' buoni lettori mi terrà vece di gloria.Al limitare della tomba, già omai solo nel mondo, abbandonato così dagli amici che dai nemici, senza timori e senza speranze che non siano eterne, libero per l'età da quelle passioni che sovente pur troppo deviarono dal retto sentiero i miei giudizi, e dalle caduche lusinghe della mia non temeraria ambizione, un solo frutto raccolsi della mia vita, la pace dell'animo. In questa vivo contento, in questa mi affido; questa io addito ai miei fratelli più giovani come il più invidiabile tesoro, e l'unico scudo per difendersi contro gli adescamenti dei falsi amici, le frodi dei vili e le soperchierie dei potenti. Un'altra asseveranza deggio io fare, alla quale la voce d'un ottuagenario sarà forse per dare alcuna autorità; e questa è, che la vita fu da me sperimentata un bene; ove l'umiltà ci consenta di considerare noi stessi come artefici infinitesimali della vita mondiale, e la rettitudine dell'animo ci avvezzi a riputare il bene di molti altri superiore di gran lunga al bene di noi soli. La mia esistenza temporale, come uomo, tocca omai al suo termine; contento del bene che operai, e sicuro di aver riparato per quanto stette in me al male commesso, non ho altra speranza ed altra fede senonché essa sbocchi e si confonda oggimai nel gran mare dell'essere. La pace di cui godo ora, è come quel golfo misterioso in fondo al quale l'ardito navigatore trova un passaggio per l'oceano infinitamente calmo dell'eternità. Ma il pensiero, prima di tuffarsi in quel tempo che non avrà più differenza di tempi, si slancia ancora una volta nel futuro degli uomini; e ad essi lega fidente le proprie colpe da espiare, le proprie speranze da raccogliere, i propri voti da compiere.Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sue bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov'ella sta, e parlo d'altro.Alle nove della sera di quel povero venerdì, l'attuario mi consegnò al custode, e questi, condottomi nella stanza a me destinata, si fece da me rimettere con gentile invito, per restituirmeli a tempo debito, orologio, denaro, e ogni altra cosa ch'io avessi in tasca, e m'augurò rispettosamente la buona notte."Fermatevi, caro voi;" gli dissi "oggi non ho pranzato; fatemi portare qualche cosa.""Subito, la locanda è qui vicina; e sentirà, signore, che buon vino!""Vino, non ne bevo."A questa risposta, il signor Angiolino mi guardò spaventato, e sperando ch'io scherzassi. I custodi di carceri che tengono bettola, inorridiscono d'un prigioniero astemio."Non ne bevo, davvero.""M'incresce per lei; patirà al doppio la solitudine..."E vedendo ch'io non mutava proposito, uscì; ed in meno di mezz'ora ebbi il pranzo. Mangiai pochi bocconi, tracannai un bicchier d'acqua, e fui lasciato solo.La stanza era a pian terreno, e metteva sul cortile. Carceri di qua, carceri di là, carceri di sopra, carceri dirimpetto. Mi appoggiai alla finestra, e stetti qualche tempo ad ascoltare l'andare e venire de' carcerieri, ed il frenetico canto di parecchi de' rinchiusi.Pensava: "Un secolo fa, questo era un monastero: avrebbero mai le sante e penitenti vergini che lo abitavano, immaginato che le loro celle sonerebbero oggi, non più di femminei gemiti e d'inni divoti, ma di bestemmie e di canzoni invereconde, e che conterrebbero uomini d'ogni fatta, e per lo più destinati agli ergastoli o alle forche? E fra un secolo, chi respirerà in queste celle? Oh fugacità del tempo! oh mobilità perpetua delle cose! Può chi vi considera affliggersi, se fortune cessò di sorridergli, se vien sepolto in prigione, se gli si minaccia il patibolo? Ieri, io era uno de' più felici mortali del mondo: oggi non ho più alcuna delle dolcezze che confortavano la mia vita; non più libertà, non più consorzio d'amici, non più speranze! No; il lusingarsi sarebbe follia. Di qui non uscirò se non per essere gettato ne' più orribili covili, o consegnato al carnefice! Ebbene, il giorno dopo la mia morte, sarà come s'io fossi spirato in un palazzo, e portato alla sepoltura co' più grandi onori".Così il riflettere alla fugacità del tempo m'invigoriva l'animo. Ma mi ricorsero alla mente il padre, la madre, due fratelli, due sorelle, un'altra famiglia ch'io amava quasi fosse la mia; ed i ragionamenti filosofici nulla più valsero. M'intenerii, e piansi come un fanciullo.


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Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a' renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero,dà fuori un'altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l'altre ordinazioni, prescrive:Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno.All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali(bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e fautori loro... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta edeterminata che questa sia l'ultima e perentoria monizione.



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